Il problema dell’essere o apparire, inteso come le modalità dell’animo e la voglia di fare apparire queste in modo diverso dalla verità con lo scopo di affermarsi nella società , e forse un modo di pensare consumistico che è dato dall’eguaglianza “io sono = ciò che ho e ciò che consumo”.
Per quanto concerne l’esistenza riporterei la filosofia di Kierkgaard. Lui suddivideva l’esistenza in stadi tra i quali appunto “lo stadio estetico”. Questo stadio è la forma di vita in cui l’uomo “è immediatamente ciò che è”, in altre parole l’uomo rifiutando ogni impegno continuato, cerca l’attimo fuggente della propria realizzazione all’insegna della novità e dell’avventura.
L’esteta si propone di fare della propria vita un’opera d’arte dalla quale sia bandita la monotonia e trionfino le emozioni forti. Però al di là della sua apparenza gioiosa e brillante, la vita “estetica” o meglio l’apparenza, è destinata alla noia e secondo me al fallimento esistenziale. Perché questo? Dice Kierkgaard che vivendo attimo per attimo ed evitando il peso di scelte impegnative (ovvero scegliendo di non scegliere) finisce per rinunciare ad una propria identità per finire per avvertire un senso di vuoto della propria esistenza.
Credo che scegliere per me significhi esistere. Infatti la scelta non è una semplice manifestazione della personalità ma costituisce la personalità stessa. Questo momento Kierkgaard lo chiama “stadio etico”, cioè il momento nel quale l’uomo scegliendo di scegliere, ossia prendendo una responsabilità della propria libertà , si impegna in un determinato compito. Questo stadio implica al posto della ricerca dell’eccezionalità dell’uomo comune, la scelta della ricerca della normalità e della semplicità . Penso che sia l’esistenza dell’avere, sia l’essere costituiscono le potenzialità della natura umana e che per natura e per spinta biologica alla sopravvivenza siamo più propensi alla modalità dell’avere. Anche qui trovo delle forti analogie con Kierkgaard. Infatti parla della “disperazione” come rapporto dell’uomo con se stesso << Se l’io vuol essere se stesso, non giungerà mai all’equilibrio; al contrario se non vuol essere se stesso urta anche qui in un’ impossibilità di fondo >>. In entrambe le direzioni ci si imbatte però nella “disperazione” perché è “il vivere la morte dell’io”, in altre parole la negazione del tentativo umano di rendersi autosufficiente ed evadere da sé. Il filosofo troverà poi la soluzione di questa disperazione nella fede, riconoscendo quindi la dipendenza dell’uomo da Dio. Egoismo e Pigrizia non sono le uniche propensioni dell’essere umano.
Qui rispondo riassumendo che l’uomo per non essere egoista deve ritenersi non autosufficiente, ma dipendente da Dio e compiere scelte responsabili in relazione a che sta peggio, quindi a personificarsi non come amico ma come unità dell’essere. Il desiderio dell’uomo “di apparire avendo” non lo porterà “al centro di gravità permanente”, la personalità va trovata nell’essere come scelta responsabile ed immutevole nel tempo in relazione all’unità e non all’unicità della natura umana in quanto tutti dipendiamo da Dio, lasciando stare la personalità dell’apparenza in quanto “il sonno della ragione produce mostri” (Francisco Goya).
Il modo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali e artificiali, vive e muore, caduche ed eterne, che hanno tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate ad essere viste, udite, toccate, guastate e odorate,a essere percepite da creature senzienti muniti degli appropriati organi di senso. Nulla potrebbe apparire, la parola “apparenza” non avrebbe alcun senso se non esistessero esseri ricettivi, creature viventi capaci di conoscere, riconoscere e reagire, con la fuga o il desiderio, l’approvazione o la disapprovazione, il biasimo o la lode – a ciò che non semplicemente c’è, ma appare loro ed è destinato alla loro percezione. In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo, Essere e Apparire coincidono. La materia inanimata, naturale e artificiale, immutabile e mutevole, dipende nel suo stesso essere, cioè nel suo stesso apparire, dalla presenza di creature viventi. Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore. In altre parole, nulla di ciò che è, è fatto per essere percepito da qualcuno. Non l’Uomo, ma uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra. Siccome gli esseri senzienti, uomini e animali, cui le cose appaiono e che, come esseri ricettivi, garantiscono la loro realtà . Sono a loro volta essi stessi apparenze, destinate e insieme atte a vedere e a essere vedute, a udire e essere udite, a toccare e essere toccate, essi non sono mai semplicemente soggettivi né possono essere intesi come tali: non sono meno “oggettivi” di una pietra o di un ponte. La modalità delle cose viventi implica che non esiste soggetto che non sia insieme un oggetto e appaia come tale a qualcun altro, che è garante della sua re